Sono sempre più frequenti i corsi di formazione su come scrivere articoli scientifici offerti dagli editori commerciali. In questo modo però si rinuncia ad un punto di vista indipendente e capace di mostrare le varie possibilità esistenti, a favore di una visione necessariamente di parte ed economicamente interessata ad inserire gli autori in quello che è stato definito il "publisher silo", un percorso verticale obbligato, proprietario e interamente appaltato all'editore.
L’open science è diventata da parecchio tempo un tema oggetto di discussione in molte istituzioni, anche per effetto delle politiche a livello europeo e globale (Consiglio d’europa e Ostp). Sui siti di università e centri di ricerca possiamo vederne declinati i diversi aspetti: dalla gestione dei dati FAIR, alla preregistrazione dei metodi, dalla pubblicazione dei preprint alla pubblicazione delle revisioni paritarie, alla condivisione del codice e del software, ma quanto poi questi temi siano diventati pratica comune è un discorso diverso. Perché ciò avvenga è necessaria una intensa attività formativa, è importante che ricercatori più giovani e senior capiscano il valore della condivisione (di testi, dati, codice, software, metodi) e lo scopo finale che è quello della circolazione di ricerche riproducibili, verificabili o replicabili, ai fini dell’avanzamento della scienza.
L’editoria scientifica, nella sua versione commerciale e oligopolista non aiuta uno sviluppo equo, diffuso e consapevole delle pratiche di scienza aperta.
Le modalità di pubblicazione, anche open access, si moltiplicano, si complicano, spesso con informazioni confusive, incomplete e poco trasparenti, e bisogna essere molto attenti e aver sviluppato una buona consapevolezza e sensibilità rispetto ai temi dei costi e della circolazione delle pubblicazioni scientifiche per districarsi nel labirinto di contratti e clausole.
Ultimamente sono apparse modalità fantasiose (nella forma e nei costi) come l’ADC model di ACS, rispetto al quale ci sono state, reazioni indignate o anche la pubblicazione di lavori evidentemente costruiti con sistemi di intelligenza artificiale in riviste di editori di chiara fama. O ancora modalità trasandate di fornitura di metadati da parte degli editori, con metadati poveri o mancanti trasmessi ai repository istituzionali, come nel caso di quelli che si interfacciano con gli iris italiani nell'ambito di contratti trasformativi sottoscritti da CRUI-CARE (come fatto presente dal focus group nazionale di Iris a CRUI CARE).
Di recente gli editori stanno offrendo, con sempre maggiore frequenza, corsi su come pubblicare in maniera efficace o su come scrivere un articolo scientifico, o come pubblicare ad accesso aperto il proprio contributo. Anche gli strumenti messi a disposizione dagli editori sono ormai molti: dai repository per i dati ai server di preprint, per non parlare di piattaforme funzionali alla valutazione della ricerca. Gli autori – in modo spesso inconsapevole e non riconoscendo la differenza rispetto a servizi non commerciali – si muovono interamente all’interno di quello che Sever ha definito in un recente articolo il "publisher silo".
Un percorso verticale obbligato, interamente proprietario e appaltato all’editore, in cui l’autore viene incanalato - a partire dalla possibilità di sottomettere il proprio preprint in un archivio specifico, di gestire i quaderni di laboratorio, fino al deposito dei dati, del codice, al monitoraggio delle citazioni e dei download. Un percorso a senso unico guidato dagli interessi dell’editore a cui si contrappone un ecosistema trasparente di infrastrutture pubbliche e soggetti diversi, guidato da interessi scientifici e basato sul confronto all’interno della comunità scientifica di riferimento.
All’ampia offerta di strumenti per la pubblicazione da parte degli editori, che tendono a occupare e commercializzare anche quegli spazi che un tempo erano appannaggio esclusivo delle istituzioni e degli autori, spesso le istituzioni di ricerca rispondono facendo loro persino pubblicità e reclamizzando corsi e incontri nelle proprie liste.
Ma veramente un giovane ricercatore deve farsi insegnare da un editore commerciale come scrivere un articolo scientifico? O cosa vuol dire pubblicare ad accesso aperto? Quali sono le alternative?
Le istituzioni hanno al loro interno tutte le competenze tecniche e scientifiche per formare i ricercatori, soprattutto i più giovani, e per aiutarli ad acquisire una visione critica sui temi, i modi e i costi della comunicazione scientifica.
L’università di Milano, ad esempio, dedica al tema della formazione un programma piuttosto articolato sia per quanto riguarda i destinatari che per quanto riguarda le tematiche affrontate, che in relazione ai livelli di approfondimento. Nel 2023 sono state dedicate alla formazione di dottorandi, studenti magistrali, specializzandi e ricercatori più di 200 ore di formazione. Si è cercato di presentare l’open science in tutti i suoi aspetti. L’open access è certamente una parte consistente (e variegata) ma complementare alla gestione dei dati, alla preregistrazione, alla open peer review, alla capacità di individuare sedi editoriali predatorie o viceversa sedi editoriali di qualità secondo un concetto di qualità non definito dagli indicatori bibliometrici. Anche altre istituzioni grandi e medio piccole hanno cominciato ad attivarsi per offrire soprattutto ai ricercatori più giovani percorsi di formazione adeguati alle richieste che arrivano sempre più frequenti dagli enti finanziatori della ricerca.
Essendo ormai chiaro che l’open science coinvolge l’intero processo di generazione di una ricerca, a partire dalla sua progettazione fino alla sua disseminazione e riuso, è importante che tutte le istituzioni si attrezzino e che siano in grado di erogare ai propri ricercatori la formazione necessaria a muoversi in un mondo, quello di una comunicazione scientifica trasparente e riproducibile, che diventa sempre più complesso e per il quale altri soggetti sono già pronti a pubblicizzare servizi e strumenti. A pagamento naturalmente.
02 novembre 2023