C'è una cosa che hanno in comune le riviste predatorie e alcuni dei journal scientifici più accreditati: il pagamento delle tariffe di pubblicazione, spesso motivate come costi per l'Open Access e note come APCs. Lo scopo di lucro è presente sia nell'editoria reputata come seria e "blasonata", sia in quella dove si può pubblicare di tutto, anche senza alcun fondamento scientifico, purché si paghi. Tuttavia è importante non attribuire un nesso causale tra l'intento nobile di aprire la conoscenza e la proliferazione di pratiche predatorie, che non rispettano standard etici minimi e sembrano invece legate alla pressione del 'publish or perish'. Ma come distinguere le iniziative predatorie da quelle legittime? Può non essere facile, ma alcuni indizi e una serie di riflessioni possono essere d'aiuto
“This business of publish or perish has been a catastrophe”, scriveva Hannah Arendt nel 1972, ben prima che si iniziasse a parlare di Open Access. Già allora la celebre autrice aveva rilevato un problema, anzi – nelle sue parole – una catastrofe nel sistema delle pubblicazioni scientifiche, problema che è all’origine del diffondersi dell’editoria predatoria.
Il problema è noto con l’espressione “publish or perish”, un motto che si riferisce alla fortissima pressione a cui sono sottoposti i ricercatori nel corso della loro carriera, costretti a pubblicare di continuo e su riviste di rilievo, per evitare di sparire dalla scena professionale accademica. Nel nostro Paese le riviste scientifiche considerate di rilievo sono classificate come riviste di classe A: “riviste dotate di ISSN, riconosciute come eccellenti a livello internazionale per il rigore delle procedure di revisione e per la diffusione, prestigio e impatto nelle comunità degli studiosi del settore, indicati anche dalla presenza delle riviste stesse nelle maggiori banche-dati nazionali e internazionali” (D.M. 7 giugno 2016, n. 120, allegato D, art. 4 b).
Si parla di costrizione a pubblicare perché, in sintesi, i ricercatori sono stati fino a ora valutati per lo più sulla base di indicatori quantitativi che misurano la frequenza con cui i loro articoli vengono pubblicati e citati da altri e il grado di influenza - l’impatto - delle riviste in cui pubblicano, e sulla base di criteri che valorizzano la partecipazione a comitati redazionali e a conferenze.
Dunque perché Hannah Arendt scriveva che il “publish or perish” è una catastrofe? Perché le persone scrivono testi che non avrebbero mai dovuto essere scritti né meriterebbero di essere pubblicati, ma lo fanno per mantenere il proprio lavoro o per ottenere una promozione (1). E questo ha una serie di conseguenze negative, ovvero:
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moltiplica le pubblicazioni di dubbio o di nessun valore;
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complica per i lettori la ricerca di testi validi sulla materia di loro interesse per via della quantità eccessiva di risorse disponibili;
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e, in generale, svilisce l’intera vita intellettuale, finendo per trasformare i ricercatori da lettori bramosi di imparare a scrittori che non leggono (qui prendo in prestito un’espressione usata da Roberto Cubelli e Sergio Della Sala).
Sono passati cinquant’anni dalle considerazioni di Hannah Arendt e questa enorme pressione a pubblicare ha reso i ricercatori sempre più vulnerabili, spingendo alcuni a trascurare la qualità dei contenuti o addirittura ad alterare i propri studi pur di pubblicare tanto e velocemente e di ottenere così visibilità e prestigio. Questa vulnerabilità ha alimentato l’industria dell’editoria, essendo cresciuta enormemente la richiesta di spazi per pubblicare. E nel mercato dell’editoria scientifica è sorto un problema che sta preoccupando la comunità dei ricercatori di tutti i settori disciplinari: l’editoria predatoria, ovvero - potremmo dire - l’esistenza di lupi travestiti da agnelli.
“Editoria predatoria” è un’espressione ombrello che descrive un ampio spettro di pratiche editoriali che possono spaziare da meccanismi di pubblicazione intenzionalmente fraudolenti e ingannevoli a pratiche discutibili dal punto di vista etico e deontologico, fino a includere realtà meno consolidate o poco competitive in termini di qualità e risorse.
L’espressione è apparsa per la prima volta una decina di anni fa, quando Jeffrey Beall, un bibliotecario dell’Università del Colorado, creò una lista diventata molto famosa di “potenziali, possibili o probabili” editori e riviste predatorie. In questa lista erano incluse una serie di riviste che, in base a criteri prestabiliti, sembravano non rispettare i migliori standard etici e deontologici del settore dell’editoria, stabiliti a livello internazionale per esempio dal COPE, il Committee on Publication Ethics, un comitato internazionale che ha l’obiettivo di definire linee guida e buone prassi riguardanti l’etica nell’editoria scientifica e di aiutare gli editori a implementarle.
Vediamo quali sono questi standard etici che non vengono rispettati e, dunque, cosa dovrebbe contraddistinguere queste attività predatorie che, va sottolineato, riguardano sia editori e riviste ma anche organizzatori di conferenze.
La prima caratteristica è un alto tasso di accettazione dei contributi. Ogni articolo scientifico viene sottoposto a una revisione da parte di esperti. Per dare un’idea, riviste considerate di prestigio accettano circa l’8-10% degli articoli che ricevono e rendono questo dato pubblico (per esempio la rivista Nature ha un tasso di accettazione dei manoscritti candidati alla pubblicazione dell’8%). Invece, gli editori predatori pubblicano praticamente tutti i contributi che vengono loro sottomessi e non diffondono la percentuale di accettazione.
Questo significa che queste riviste si limitano a effettuare una valutazione superficiale dei contenuti scientifici, cosa che gli consente di pubblicare quasi tutto quello che ricevono e di farlo in tempi molto rapidi.
Queste situazioni sono venute alla luce anche grazie a inchieste di alcuni ricercatori che hanno inviato, sotto falso nome, dei finti articoli scientifici a diverse riviste per vedere in quali sarebbero stati accettati e pubblicati. Un esempio divenuto celebre per via delle sue caratteristiche parodistiche riguarda un testo che propone l’uso del cetriolo per via endovaginale come trattamento sicuro ed efficace contro la sindrome premestruale. L’articolo è stato del tutto inventato e scritto ad hoc da Salvo Di Grazia, un medico e divulgatore scientifico, sotto lo pseudonimo di Massimo Della Serietà, in qualità di finto Presidente dell’inesistente Fondazione Rocco Siffredi, e dei suoi co-autori dai nomi altrettanto singolari (Tarocco, Fasullo e Cetriolone). Il contributo è stato prontamente accettato per una conferenza internazionale, evidentemente predatoria.
Inchieste come questa, smascherando attività e riviste predatorie, hanno dimostrato in modo sconfortante come dei dati inventati possano essere inseriti in un sistema di diffusione dei risultati scientifici senza un controllo serio sulla qualità dei contenuti.
L’unica condizione per ottenere la pubblicazione in questo tipo di riviste è il pagamento di un contributo a carico degli autori. Ed ecco dove il fenomeno dell’editoria predatoria interseca quello dell’Open Access.
È fondamentale chiarire che i due fenomeni sono intrecciati ma non esiste una correlazione causale tra Open Access ed editoria predatoria. In alcuni casi è stato infatti sostenuto che l’Open Access abbia causato l’editoria predatoria. Tuttavia, sembra più corretto affermare che quest’ultima abbia solo trovato nuova linfa grazie al meccanismo delle APCs (Article Processing Charges) richieste da diverse riviste ad accesso aperto, sfruttando il modello dell’Open Access al puro scopo di lucro.
Merita sottolineare che l’obiettivo del profitto è evidentemente presente anche nell’editoria considerata seria e blasonata, e anzi, le APCs sono state trasformate in un nuovo modello di business anche da questi editori. In diversi casi ciò è avvenuto addirittura mantenendo in parallelo il modello ad abbonamento, come avviene nelle riviste ibride che alimentano il cosiddetto “double dipping”. Per tali ragioni, i costi di pubblicazione non possono essere considerati di per sé un indice di attività predatoria: anche molte riviste di qualità prevedono il pagamento di una tariffa a volte molto elevata da parte dei ricercatori per garantire l’Open Access.
Si potrebbe invece affermare, in modo più appropriato, che l’editoria predatoria trova il suo carburante principale nel meccanismo del “publish or perish” e nel sistema delle valutazioni delle carriere accademiche che impone di pubblicare per sopravvivere, inducendo a considerare o a cadere vittime di questo tipo di riviste.
Allora qual è la differenza tra una rivista scientifica seria che chiede un contributo per pubblicare Open Access e una rivista predatoria che esiste al solo scopo di sfruttare i meccanismi della comunicazione scientifica a fini di lucro, anche a scapito della qualità? E come si riconoscono le riviste o le conferenze predatorie?
Queste sono domande su cui gli studiosi si sono arrovellati molto negli ultimi anni. Alcuni elementi li abbiamo già visti, e riguardano il fatto che le riviste predatorie non rispettano gli standard della peer review, ovvero non effettuano una valutazione accurata degli articoli prima di pubblicarli, in modo da accettarne tanti e di pubblicarli in tempi brevissimi.
Ma l’editoria predatoria è un fenomeno complesso che non si può appiattire su una singola caratteristica, e che appare più facilmente comprensibile attraverso uno “spectrum approach”. La sua complessità inizia proprio dalla sua stessa definizione e dall’identificazione di criteri per riconoscere una rivista, un editore o una conferenza predatoria.
Nel 2019 a Ottawa, in Canada, si è tenuta una consensus conference – con 43 rappresentanti provenienti da 10 Paesi – per giungere, dopo un lungo processo che ha richiesto parecchi passaggi e scelte di tipo concettuale molto complesse, a una definizione condivisa di “editoria predatoria”:
«Le riviste e gli editori predatori danno priorità all’interesse personale a scapito delle conoscenze. Essi forniscono informazioni false o fuorvianti, deviano dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione, mancano di trasparenza e/o tipicamente adottano pratiche di richiesta di articoli aggressive e indiscriminate» (traduzione nostra).
Cosa accomuna gli editori predatori secondo questa definizione? Essi:
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danno priorità al proprio interesse a scapito del sapere e della conoscenza, dunque sfruttano l’Open Access a scopo di lucro indipendentemente dalla qualità dei contenuti;
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deviano dai migliori standard del settore editoriale;
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forniscono informazioni false o ingannevoli;
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sono caratterizzati dalla mancanza di trasparenza;
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e fanno ricorso a pratiche di sollecitazione aggressive e indiscriminate.
Soffermiamoci sull’ultimo punto: le sollecitazioni aggressive. La maggior parte dei ricercatori riceve su base quotidiana email con determinate caratteristiche. Tali email di solito fanno riferimento a lavori precedenti realmente pubblicati, di cui menzionano i titoli precisi, e di primo acchito possono sembrare affidabili, ma utilizzano un linguaggio esageratamente lusinghiero nella speranza di convincere chi le riceve a inviare un articolo o a diventare componente del Comitato editoriale della rivista. Guardando meglio, tra l’altro, spesso contengono errori di grammatica o dichiarazioni contraddittorie, non menzionano quasi mai i costi di pubblicazione che poi appaiono a sorpresa sotto forma di fattura dopo l’invio degli articoli, e a volte includono addirittura informazioni false.
A proposito di informazioni false o ingannevoli, ecco qualche esempio:
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i titoli delle riviste predatorie, e la grafica dei loro siti web, sono spesso molto simili a quelli di riviste di ottimo livello editoriale dello stesso settore disciplinare proprio per indurre in confusione;
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molte volte vengono inseriti tra i collaboratori della rivista predatoria ricercatori di fama internazionale senza che questi lo sappiano, con una sorta di furto di identità;
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nelle email di invito o sui siti web, vengono dichiarate false affiliazioni, o Impact Factor finti. Anche questi, sono citati con nomi simili a fattori di impatto reali e accreditati;
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oppure la rivista dichiara falsamente di essere indicizzata presso banche dati di rilievo quali Scopus o Web of Science (le banche dati chiuse su cui vengono elaborati gli indici bibliometrici di riferimento nel sistema di valutazione comunemente adottato per il reclutamento dei ricercatori).
Infine, la mancanza di trasparenza può riguardare:
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la carenza di informazioni di contatto o di informazioni relative al Comitato editoriale e all’editor (tra cui l’affiliazione);
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l’assenza di indicazioni sul copyright e sulle forme di archiviazione a lungo termine e deposito legale;
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l’assenza di specifiche sul tipo di revisione tra pari effettuata, sul processo editoriale e sui costi;
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l’assenza di policy per la ritrattazione degli articoli;
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l’assenza di policy per la gestione di eventuali casi di falsificazione, fabbricazione e plagio di immagini, dati o testi;
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il riferimento ad ambiti disciplinari troppo vasti e non definiti per l’invio dei contributi.
Questi fattori - se vogliamo, queste strategie di mimetizzazione - lasciano intuire quanto possa risultare difficile non cadere nella trappola di una rivista predatoria che si traveste da rivista affidabile. Anche perché alcuni di questi elementi, ad esempio la multidisciplinarietà o il mancato accreditamento presso le più importanti banche dati, caratterizzano anche novità editoriali o realtà meno consolidate o poco competitive in termini di risorse, che rischiano ingiustamente di essere assimilate a realtà predatorie senza esserlo.
Va poi considerato anche un altro aspetto. Abbiamo già accennato al fatto che non soltanto spesso risulta difficile in buona fede riconoscere una rivista predatoria (e questo comporta di per sé un rischio per tutti i ricercatori e per la qualità delle loro pubblicazioni) ma, in alcuni casi, c’è il rischio che l’invito a pubblicare, a partecipare a conferenze, o a diventare componenti dei comitati editoriali di queste riviste, possa essere visto come un’opportunità, come una corsia preferenziale, per acquisire titoli considerati utili nell’avanzamento della propria carriera. Cosa che invece rappresenta una pratica irresponsabile dal punto di vista etico, e che quindi può, al contrario, danneggiare sia la reputazione dei singoli sia quella dei gruppi di ricerca a cui afferiscono.
Oltre ad avere una serie di ripercussioni negative, tra cui soprattutto l’inquinamento della letteratura scientifica (ovvero il rischio che vengano pubblicati dati erronei, falsi o manipolati), la perdita di fiducia nella ricerca scientifica, e lo spreco di tempo e di finanziamenti pubblici.
Per queste ragioni, da alcuni anni, molti Paesi cercano di implementare strategie per arginare il fenomeno e per prevenire i suoi possibili effetti.
Le misure proposte possono essere divise in due macro-categorie:
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una è la creazione di liste nere di editori e riviste predatorie (come la lista di Beall), a cui più di recente si sono affiancate anche delle liste bianche di riviste affidabili. Il problema principale di queste liste è il rischio di fare errori di classificazione: sono state infatti rinvenute riviste “infiltrate”, sia nel senso di riviste predatorie presenti in una lista bianca, sia nel senso di riviste classificate erroneamente come predatorie ma in realtà affidabili. La lista di Beall, ad esempio, ampiamente usata ed elogiata all’inizio, è stata criticata e infine dismessa nel 2017 proprio perché non garantiva, nemmeno per un esperto, di poter classificare in maniera binaria gli editori dividendoli in affidabili e predatori;
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la seconda strategia consiste, invece, nello svolgimento di progetti di ricerca e nell’elaborazione di campagne e documenti di tipo informativo-educativo, che propongono una serie di raccomandazioni per aiutare i ricercatori a riconoscere e a evitare le riviste e le conferenze predatorie.
Nella seconda categoria rientra la campagna “Think. Check. Submit”. Si tratta della prima campagna di questo tipo, lanciata nel 2015, ideata e promossa da una serie di organizzazioni del settore dell’editoria e rappresentanti di biblioteche, che ha proposto una lista di parametri per controllare l’affidabilità di una rivista prima di sottomettere un articolo.
La campagna è organizzata in tre sezioni, da cui prende il nome l'intera campagna: pensa, controlla, sottometti.
La sezione “Pensa” è un invito a riflettere su due domande: “stai inviando la tua ricerca a una rivista affidabile?”; “è la rivista giusta per la tua ricerca?”.
Nella sezione “Controlla” viene proposta una lista di domande e sottodomande per esaminare la rivista e verificarne l’affidabilità, domande che richiamano quanto analizzato sinora. Ad esempio:
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“Tu o i tuoi colleghi conoscete la rivista?”;
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“Puoi identificare e contattare facilmente l’editore?”;
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“Le tariffe di pubblicazione sono chiaramente indicate?”; “Riconosci il comitato editoriale?”;
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“L’editore è membro di un’associazione riconosciuta, ad esempio il COPE?”.
E, infine, nella sezione “Sottoponi”, viene suggerito di sottomettere l’articolo solo se si è risposto affermativamente a tutte o alla maggior parte delle domande della checklist. Sempre in questa sezione vengono descritti in modo schematico i vantaggi reputazionali e scientifici che derivano dalle buone pratiche di pubblicazione.
In questi anni, sono state elaborate altre campagne analoghe, ad esempio “Think. Check. Attend”; sono stati elaborati documenti e linee guida; e sono stati avviati progetti di ricerca sul tema. Uno di questi è “Combatting Predatory Academic Journals and Conferences” (2020), a cura di un gruppo di lavoro di esperti facenti parte di una rete di accademie a livello internazionale (la InterAcademy Partnership), che ha elaborato una survey coinvolgendo 1872 persone in 112 paesi, i cui risultati sono stati utilizzati per elaborare linee guida e raccomandazioni.
Uno dei punti di riferimento internazionali è il documento pubblicato il 1 novembre 2019 dal COPE. Il documento discute il problema della definizione del fenomeno, della sua nomenclatura, dei criteri identificativi; elenca alcuni segnali di allarme e fornisce una serie di raccomandazioni indirizzate a diversi gruppi di stakeholders: autori, editori, revisori, direttori di riviste, istituzioni e finanziatori.
Anche in Italia è stato elaborato un documento di orientamento per i ricercatori, pubblicato qualche mese prima di quello del COPE, nel giugno del 2019, a cura di un gruppo di lavoro della Commissione per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca del CNR. Il documento “Crescenti rischi di un’editoria predatoria: raccomandazioni per i ricercatori”, in continuo aggiornamento sin dalla sua prima pubblicazione nel 2019, si pone espressamente l’obiettivo di «facilitare i ricercatori nell’identificazione, talora non semplice, delle riviste predatorie», ossia di minimizzare il rischio che essi possano ‘cadere preda’ di tali editori.
L’obiettivo di queste iniziative e documenti è quello di sensibilizzare i ricercatori sulle questioni etiche relative alla pubblicazione delle proprie ricerche, e di renderli parte attiva del processo. Le liste, al contrario, stimolano un atteggiamento più automatico e probabilmente più passivo. Questi documenti invece non forniscono istruzioni rigide ma indicazioni sempre aggiornabili che vogliono avere soprattutto una valenza simbolica e culturale, che è quella di rendere i ricercatori più consapevoli, più vigili e più accurati nella scelta delle riviste su cui pubblicare e nella selezione delle conferenze a cui partecipare.
In chiusura è utile anche una riflessione sul termine “preda”. La metafora dei predatori e delle prede nell’editoria scientifica è molto efficace. Tuttavia, visto che le scelte lessicali sono già scelte argomentative, questa metafora non deve indurci a pensare che i ricercatori siano privi di responsabilità, di motivazioni e di possibilità di agire. Noi non siamo inermi, non siamo vittime, ma è una nostra responsabilità quella di impegnarci a riconoscere i segnali di allarme, così come di adottare e diffondere le migliori prassi in materia di etica nella pubblicazione scientifica.
(1) Hannah Arendt, “Values in contemporary society”, in Thinking without a banister: essays in understanding, 1953–1975, a cura di Jerome Kohn, New York: Schocken Books, 2018, pp. 461-466: «This business of “publish or perish” has been a catastrophe. People write things which should never have been written and which should never be printed. Nobody’s interested. But for them to keep their jobs and get the proper promotion, they’ve got to do it. It demeans the whole of intellectual life».
Riferimenti:
Gina Pavone & Roberta Martina Zagarella, “Etica nella pubblicazione scientifica. Workshop su Open Access e prevenzione dell’editoria predatoria” (moderatore: Giorgia Adamo; Workshop a cura del CID Ethics-CNR), 7 dicembre 2023, Più Libri Più Liberi, La Nuvola, Roma.
Roberta Martina Zagarella, Preservare la qualità delle pubblicazioni: le insidie dell’editoria predatoria, Biotetica. Rivista interdisciplinare, n. 3-4 2023, pp. 700-716.
Cinzia Caporale & Roberta Martina Zagarella, Ethics and Integrity in Academic Publishing. In: Congiunti, L., Lo Piccolo, F., Russo, A., Serio, M. (eds) Ethics in Research. UNIPA Springer Series. Springer, Cham, 2023, pp. 53-69. https://doi.org/10.1007/978-3-031-24060-7_5
Roberta Martina Zagarella, Marco Annoni & Cinzia Caporale, “Preventing predatory publishing: the CNR’s Italian guidelines for researchers” (poster), ENRIO 2021 Congress on Research Integrity Practice”, 27-29 settembre 2021.
Commissione per l’Etica e l’Integrità nella Ricerca del CNR, “Crescenti rischi di un’editoria predatoria: raccomandazioni per i ricercatori”, 2019 (Revisione 2022). https://www.cnr.it/it/documenti-commissione.
29 July 2024